Recensioni critiche selezionate di Luca Leonelli

A proposito della vita e della morte nei disegni di Luca Leonelli

di Arturo Schwarz

L'associazione della donna con la morte è uno dei temi più frequenti nell'iconografia sacra e profana. Come tutti i valori archetipici, entrambe assumono, in quanto simboli, valenze allegoriche antitetiche. In particolare nelle tradizioni esoteriche e nei miti, la donna e la morte spesso personificano la Grande Iniziatrice, colei che porta la felicità più alta e la salvezza con la luce della conoscenza.

Oppure, e questa è un'eccezione che le religioni monoteiste perpetuano in larga misura tutt'ora, la donna e la morte stanno per tutto ciò che è nefasto: sono portatrici di dolore, di perdizione, di rovina.

A me sembra che in questo ciclo di disegni Luca leonelli sia riuscito a rappresentare non tanto il conflitto tra Eros e Thanatos quanto la loro complementarietà ed abbia così esaltato le valenze positive di entrambi. Ritroviamo un esempio classico dell'ambivalenza della coppia Donna-Morte nella pulsione al regressus ad uterum. Il ritorno al grembo materno segna in molti sistemi esoterici e nella tradizione alchemica, sia la morte che la rinascita.

Nella maggior parte dei sistemi antichi, e in primo luogo quelli orfici e pitagorici, la morte non è mai separata dai simboli della resurrezione, mentre la donna vi appare come la suprema iniziatrice ai misteri della sessualità e quindi della vita. Non è un caso se la morte viene anche strettamente associata all'orgasmo.

In molte lingue esso viene chiamato “piccola morte”. Il poeta latino Properzio descrivendo le “prime delizie d'amore” di Gallo scrive: “ti vidi morire nelle braccia di lei/ poi dopo lunga pausa, ritornare ai sospiri” (Elegie I–10).

Con Leonelli vengono rovesciati i significati dei temi fondamentali dell'iconografia cristiana, volta a mortificare la carne e a provocare un senso di colpa in coloro che “cedono” ai piaceri dei sensi. La Danza macabra diventa con il nostro artista un balletto sfrenato, il Trionfo della morte si trasforma nell'esaltazione della vita e l'incontro pauroso del vivo con il morto che ricorda al viandante “ero quale sei tu ora, sarai quello che sono io”, si muta in una sfida amorosa.

Ultimo e non trascurabile particolare, la donna impegnata in questi rapporti passionali è sempre corpulenta. Nell'immaginario erotico vi è sempre uno stretto rapporto tra i piaceri del sesso e quelli del cibo. Basti pensare al festino nuziale di Emma nel Madame Bovary di Flaubert. Oppure al doppio senso che assume il “ti mangerei”, dove il verbo, non solo in inglese, sta per il cunnilingus.

Nella poesia di Baudelaire dedicata alla giovane gigante, la corpulenza è collegata alla pienezza e all'intensità dell'amplesso, come per sancire il Grande rifiuto che l'amore permette di opporre alla inevitabile fine dell'esistenza.

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Arturo Schwarz, Milano, ottobre 1992

Amore e tecnica nell'arte di Luca Leonelli

di Arturo Schwarz

Luca è un amico caro. Un amico raro. Sono sempre meno numerose le persone che sanno ancora amare. Amare e rispettare la donna, amare e rispettare la bellezza che ci circonda. Incontrare una persona del genere significa, per me, avere un alter ego. Ciò che porta Luca ad essere compartecipe del Tutto, è un dono innato, naturale, un’esigenza imperiosa che lo costringe ad esprimere il mistero e la trascendenza dell’esistente con una precisione appassionata e lenticolare che ritroviamo, per esempio, in un Vermeer.

Questa inderogabile esigenza interiore fa sì che Luca sia un artista classico e quindi d’avanguardia. Essere d’avanguardia, oggi, non significa volere épater le bourgois. Vi è più arte e poesia in un acquarello di 20 cm quadri di Paul Klee che in 20 metri di tele stampate di Daniel Buren. Jeff Koons pensa di scioccare con opere di schietta pornografia; Maurizio Cattelan vuole suscitare scalpore con le immagini del papa schiacciato da un meteorite, oppure esponendo, in una pubblica piazza, i fantocci di bambini impiccati. Il mondo artistico sta vivendo una doppia, mortale, ambiguità. Si sta manifestando un odio delle arti plastiche che esigano un certo grado di manualità. Con il pretesto di volere respingere il formalismo dell’arte per l’arte, si è giunti ad una forma d’arte contro l’arte. La nuova, auto-proclamatasi avanguardia, ha tutte le caratteristiche della più trita accademia: ripetizione dell’identico, sia nel tema che nella forma; ricorso al monumentale e allo smisurato; accento sul decorativo; ambizione di scandalizzare ad ogni costo; mancanza totale di un’autentica ispirazione.

Regna pure una confusione semantica totalmente inedita. Sotto la categoria di “arte plastica” si fanno rientrare generi che hanno certamente una loro dignità artistica ma che nulla hanno a che fare con la manualità richiesta dalla pittura, dalla scultura, dal disegno o dall’incisione. Ad esempio gli “Happenings” sono semplicemente opere improvvisate (alla maniera del jazz) di mini-teatro e ricordo che quando assistetti ai primi Happenings, a New York, nel 1960, Allan Kaprow, Claes Oldenburg, John Cage e Jim Dine erano d’accordo a definire questo mezzo espressivo come un “evento teatrale senza trama predeterminata”. Allo stesso modo i Video appartengono alla cinematografia; le installazioni alle sceneggiature; le opere realizzate con i tubi al neon sono esempi di interior decoration; la body art è l’espressione di un narcisismo esasperato, spesso di impronta sado-masochista; nel migliore dei casi, si potrebbe definire la body art come una forma d’arte propria dell’attore.

Tutto questo mi porta ad una riflessione del gentile e inventivo Man Ray: se un artista vuole veramente rompere le regole, la prima regola è quella di conoscerle, anzi, di padroneggiarle.

Questa riflessione rimanda a Luca Leonelli, alla sua padronanza totale dei mezzi espressivi e al suo classicismo. Egli confesserà “non riesco a distaccarmi da una sorta di visione rinascimentale che porta la figura umana al centro di tutto quello che dipingo”. L’artista ha fatto suo l’assioma di Protagora, “l’uomo è misura d’ogni cosa”. Per Luca, l’essere umano, la flora e la fauna, sono scintille del divino che non è solo antropomorfo. La sua visione olistica del Tutto gli permette di riconoscere l’ineffabile in ogni sua manifestazione. Un uragano, può anche essere il riflesso d’un turbamento emotivo; un albero può pure rappresentare la pulsione dell’ascesa; un fiore sa diventare l’immagine più fedele e più tenera del sesso femminile. Il mito, l’arte e la poesia, questi elementi li hanno sempre riconosciuti. Il fiore — che non a caso è l’organo riproduttore della pianta — è un simbolo archetipico del sesso umano, non solo femminile.

Luca è pure un poeta sensibile e profondo – se vogliamo attenerci al ruolo che la poetica sanscrita attribuiva all’artista – perché anch’egli desidera “proiettare una luce nuova sulla natura visibile così che un nuovo universo d’amore nasca dal suo lavoro” (Agni Purana, 334:10). L’artista autentico ha una sola aspirazione: essere fedele a se stesso perché, solo esprimendo il suo io più profondo, potrà riuscire ad essere universale – se è vero che l’inconscio collettivo è comune a tutta l’umanità. Solo “indagando se stesso” (Eraclito) egli susciterà l’emozione che nasce dall’incontro con il trascendente. Pierre Reverdy l’aveva capito quando, richiesto di definire la poesia, rispose “la poesia è un’ emozione”.

Tra tutti i fiori, l’orchidea sembra quella che meglio può riflettere la bellezza e la complessità del sesso femminile. Nell’antica Cina, l’orchidea era associata alle feste del rinnovo della natura, alla primavera. La sua bellezza è un simbolo di perfezione e di purezza. L’etimologia del nome (dal greco orchis, testicolo) ne rivela la complessa natura androgina, confermata dall’anatomia del fiore che riunisce e concilia l’elemento femminile e maschile. Sappiamo che l’androginia è l’attributo della divinità perché esprime la perfezione dell’insieme femminile-maschile. Una divinità solo maschile o solo femminile conosce solo metà della perfezione. Questo spiega perché tutte le divinità delle culture mitiche più evolute hanno sempre un paredro di sesso opposto. Nell’essere umano l’androginia ha un carattere psichico. Freud e Jung l’hanno entrambi chiarito, ogni donna porta in sè l’immagine archetipica dell’uomo, l’animus; come ogni uomo quella della donna, l’anima.

Il carattere androgino dell’orchidea, più marcato che in qualsiasi altro fiore, rimanda alla sacralità dell’umano, riflesso del divino. Il nome del divino rivela sempre il suo carattere plurale dove i termini del doppio sono in un rapporto complementare e non conflittuale. Advaita (ad-vaita: non duale) nell’India antica; Tem dagli egizi: Ein-Soph per gli ebrei. Questi epiteti esprimono l’idea di perfezione, d’inclusione totale; essi esauriscono tutte le coppie dei contrari, tutte le antinomie e stanno, appunto, per la non-dualità di due proposizioni solo apparentemente opposte. Si possono moltiplicare gli esempi del carattere universalmente divino dell’androgino.

Per completare questa digressione dal nostro argomento, ricordiamo che l’androginia permette l’attuazione di una delle più antiche aspirazioni dell’essere umano: il godimento della libertà. Mircea Eliade l’aveva fatto notare: “non essere più condizionati da una coppia di opposti ha come risultato la libertà assoluta (Mefistole e l’androgino, Edizioni mediterranee, Roma 1972, p. 150).

A proposito del carattere classico dell’opera di Luca Leonelli, è ora di soffermarsi sui mezzi espressivi preferiti del nostro artista perché, anch’essi, confermano la sua cifra. Egli predilige l’acquarello — che non consente ripensamenti; il disegno, minuzioso e minuto — che solo l’artista padrone del mezzo sa elaborare; l’acquatinta a colori lavorata al brunitoio, frutto di una serie di complesse operazioni che rivelano una assidua frequentazione di questa tecnica antica, tra le più difficili e l’unica capace di restituire le sfumature cromatiche più morbide del modello.

Credo sia interessante ricordare le tappe che hanno permesso di ottenere le splendide illustrazioni di questo libro. Luca inizia con l’incidere all’acquaforte, l’immagine del fiore, ricoprendone poi l’interno con un’acquatinta omogenea. La lastra è poi lavorata al brunitoio in modo da ottenere i volumi e i contrasti di luce desiderati. Sulle prove di stampa — realizzate dallo stampatore — sono scelti i colori, cinque o sei, per ogni lastra. Le modalità d’inchiostrazione e di pulizia della superficie incisa prevedono l’applicazione contemporanea di inchiostri di diversi colori, con un unico passaggio al torchio. Dato che non è mai possibile avere un’identica inchiostrazione, non vi sono due immagini identiche.

Per quanto concerne la tipografia — un’arte in via di estinzione — un applauso riconoscente a Martino Mardersteig, che continua, sulle orme del padre e con uguale passione e sensibilità, la più raffinata tradizione della stampa con il torchio a mano e con caratteri mobili di nobile lignaggio che mordono la carta anziché lasciarvi, come è il caso per la litografia, un’anonima traccia.

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Arturo Schwarz, Milano, giugno 2005

La crisi c’è…

di Philippe Daverio

La crisi c’è… Parlo ovviamente di quella delle arti. Ed è nella sua sostanza semantica. Il XX secolo in un impeto di apparente democrazia aveva dichiarato che tutti gli esseri umani avevano diritto alla stessa dose di talento, il che è equivalso ad abolire il concetto di talento. Le avanguardie avevano sostenuto che ogni linguaggio era accettato, il che fu capito come se ogni linguaggio fosse accettabile, comprensibile, equivalente. La confusione che ne è risultata è tale che oggi si fa effettivamente fatica a capire: ogni manufatto può apparire come un’opera d’arte. Eppure il buon senso continua a farci percepire che fra l’opera d’arte che è un buon piatto di spaghetti con la pummarola in coppa e la Cappella Sistina vi deve essere una differenza accertabile.

Questo è esattamente il punto fermo del dibattito. Tale da far sì che all’arte attuale non s’interessa più nessuno, se non un nucleo militante e sacerdotale di iniziati, alcuni speculatori dai denti aguzzi come il pescecane cantato da Mackie Messer, un pubblico di falene che appare per le inaugurazioni e poi evapora, e infine alcune riviste di settore che stanno tirando l’ultimo respiro per mancanza di contributi pubblicitari.

Grande quindi il disordine sotto i cieli: la situazione è effettivamente eccellente. Nella vasta dimensione d’un mondo delle arti che si sente globale perché accede ad internet e si sposta low cost da una mostra all’altra, da una Biennale a quella successiva, rimangono nicchie di combattenti silenti intenti a proseguire con determinazione un lavoro che in tutto è simile a quello degli amanuensi del IX secolo durante le ultime scorrerie degli ungari e degli arabi. Sono i monaci del sapere, sono i custodi del talento.

Luca Leonelli appartiene a questo sparuto nucleo di resistenti. E sa benissimo che il talento senza sapere è del tutto inutile. Il talento va regolarmente esercitato con la prassi delle tecniche. E anche questo non è sufficiente per rimanere nel nucleo dei sapienti segreti. La scienza del fare non è sufficiente. Lo diceva già Rabelais: science sans conscience n’est que ruine de l’âme. La combinazione esoterica rimane la seguente: talento, abilità tecnica, densità dei contenuti. Roba difficilissima da trovare, a tal punto che al grande pubblico risulta del tutto incomprensibile.

Eppure Leonelli riserva delle sorprese inattese per chi ha l’occhio e la sensibilità privi di quei filtri conformisti che rendono il cervello opaco. Gli ho visto realizzare una serie d’incisioni dove la finezza della puntasecca si combina con la sapienza delle più complesse delle morsure. In dimensioni tali che queste opere spiegano anche allo sprovveduto la maestria dell’artista quando raggiunge i livelli del virtuosismo più complesso. Ho visto ciò che una volta si chiamava il capolavoro, cioè l’opera esemplare. E si combinano queste epifanie con tante altre opere, quelle che con un monitoraggio regolare ho avuto la fortuna di vedere nel lavoro di Leonelli. Passa egli dai percorsi ludici dei giochi di pennello, di penna o di acquarello, praticati come esercizi quotidiani della sua espressione, al pari delle esercitazioni pianistiche di scorrevolezza per chi affronta il palcoscenico, al consolidarsi in opere apicali quando sulla tela grande stende la materia colorata. Offre a chi lo frequenta il libro realizzato in copia unica per chi avrà la pazienza silente di ammirarlo e il dipinto che riassume e consolida il segno in fantasmagorie esistenziali e sopra reali. Apre una strada sconosciuta, offerta a pochi. Pronta agli esercizi della sensibilità di domani.

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Philippe Daverio, 2012

La pittura come coscienza

di Mario De Micheli

Impulso, fervore, vertigine ed intelligenza: è questa l'impressione immediata che vi prende davanti alle sue tele ed ai suoi fogli.

Leonelli cioè vi aggredisce e non vi dà pace. C'è in lui una energia che eccita l'immaginazione sino a farla deflagrare, ad accenderla di potenza espressiva. Non si tratta dunque di un pittore che vi consenta di riposare sulla bellezza cromatica delle sue composizioni: egli vi urta e vi turba perché, nelle sue opere, serpeggia un'inquietudine che sa interrogarsi sui problemi della condizione umana e sull'oscura vitalità di una natura che ricicla se stessa dall'intimo delle proprie risorse.

Globalmente sono riassunti, in questa mostra personale, gli ultimi dieci anni del suo lavoro. A scorrere, da un'immagine all'altra, il suo percorso, si può subito capire com'egli non sia per nulla pacificato per i propri esiti. Il lievito prorompente che preme nella sua visione resta infatti tutt'altro che soddisfatto. Dall'Agnello scannato dell'84 al groviglio della Piovra, appena ultimato in questo Novembre, la linea della sua ricerca appare irta di domande sia rivolte a se stesso che agli enigmi che ci circondano. Leonelli insomma non è rassegnato ad accettare il destino a cui ci sentiamo di essere sacrificati. Egli è piuttosto deciso a urtare il fatto col proprio petto. Ecco perché non cessa di porsi e di porre tanti problemi, chiedendone risposte adeguate, anche se conosce le difficoltà in cui siamo sigillati.

Il mondo vegetale e animale, nella sua opera, non è che una metafora della vicenda di cui siamo protagonisti, ma in ogni caso non è mai un simbolo astratto. Al contrario, è sempre una verità della vita palpitante ch'egli intende rappresentare nella sua vera sostanza. Si guardino i grovigli delle sue “cime di rapa”. È difficile non pensare che tali immagini non alludano a quelle forze occulte che presiedono ad ogni trasformazione organica della natura e quindi al dinamismo profondo implicito nella materia. Voglio dire cioè che il senso delle sue immagini ha sempre un recondito significato filosofico, anche se la verità dell'immagine non è mai scissa dalla verità immediata del soggetto che rappresenta. È quanto accade ugualmente ai suoi miti oranghi, così curiosi a capire i passerotti che trattengono nel pugno. Che cosa esprime dunque la loro immagine se non il rapporto misterioso dove ogni creatura è il tramite di una solidale catena di affinità che la collega ad ogni altra, alla nostra stessa esistenza?

Il mondo animale è un mondo terrestre come è terrestre il mondo dell'uomo. La sorte è dunque comune. Leonelli non intende assolutamente pronunciare gerarchie di valori. La sua visione ha una dimensione generale: è il mondo in cui conduciamo la nostra esperienza che ha un solo ed ermetico destino a cui conviene dunque presentare le nostre domande. Ma si badi: nella foresta in cui è rannicchiato uno dei suoi oranghi arboricoli, confuso tra le erbe,appare però, a questo punto, anche un nuovo e curioso personaggio: la figura di un antico intellettuale dalmatino, a cui si deve la prima traduzione latina della Bibbia ebraica: Gerolamo santo e remoto padre della Chiesa.

C'è da chiedersi il perché di una tale apparizione e non è certo facile dare una risposta. Forse Leonelli l'ha scelto perchè Gerolamo rappresenta la figura dell'interprete per eccellenza, di colui cioè che per primo ha tentato di tradurre per noi il “mistero”, gli “enigmi”, le “parole segrete” pronunciate da Dio. Vecchio e barbuto, egli impersona quindi la saggezza che l'uomo ha perduto, ma che dovrebbe ritrovare. Porta un antico cappello cardinalizio, ma che somiglia pure a quello che portano gli ebrei di fede inconcussa. A volte invece lo dipinge nudo e tutt'ossa, come un tempo l'hanno dipinto gli artisti del passato, da Leonardo a Tiziano. Forse dal loro esempio, qualche suggestione l'ha pure ricevuta. Nel Leonardo del Vaticano, il tradizionale santo è sparito. Gerolamo non è più l'asceta davanti a Dio, è solo un'anatomia crudele di muscoli e tendini, un personaggio scarnificato nella sua umanità; mentre, nel Tiziano, il Gerolamo penitente si sta percuotendo il petto nudo con un sasso… È così, ed in altri modi ancora, che Leonelli, secondo la propria ispirazione, vorrebbe rappresentare e rappresenta Gerolamo. Sembra anzi che lo voglia studiare in ogni particolare,dipingendone pure numerosi dettagli separati, le mani, le gambe, sino al tentativo, non solo di inventarsi la sua fisionomia matura, ma anche la sua prima immagine infantile.

C'è quasi una passione ossessiva in questa sua esigenza, qualcosa che gli accende la mente sino a trasformarla in un vortice di fuoco. È una tensione interiore a cui però egli non può resistere a lungo. Ritrovare una misura più calma e distesa è pure necessario, è la condizione stessa per continuare l'impresa di tradurre in immagine le proprie emozioni. E questa, appunto, è la premessa di una serie di opere, di largo impianto e di più serena visione, a cui Leonelli finalmente approda. È il momento in cui egli rievoca gli incanti della sua infanzia i primi incontri con il mondo animale e vegetale. Così la remota radice poetica della nostra esistenza lo seduce come se ora agisse in lui, con forza, una sorta di gravitazione terrestre che lo tiene intimamente aderente alla verità della sua storia. È un momento di grazia. Nelle opere che dipinge in questo periodo è come se egli, deposte le inquietudini, si riappacificasse con le nostre mitologie quotidiane. Adesso Gerolamo sembra essere felice: si incontra con gli amici, ritrova lo zoo familiare a cui si uniscono ora i personaggi dell'infanzia già viventi nelle popolari creazioni del cinema d'animazione: il Mikey Mouse di Walt Disney ed il Bugs Bunny della Warner Bros.

È a questo punto che egli può dunque guardarsi intorno senza altre preoccupazioni ed osservare ciò che accade nella natura brulicante, anche nelle sue manifestazioni meno appariscenti, come può essere un bruco, una formicola, una zanzara, perché ormai tutto gli appare come una meraviglia, come un motivo prezioso dell'universo visibile, propaggine, dell'invisibile che va oltre la corteccia del nostro sapere e affonda con le sue radici nelle viscere della terra. Leonelli sta quindi portando avanti una riflessione non solo sulle proprie emozioni, ma sull'innumerevole selva dei problemi insoluti che ci assediano.Lo fa attraverso l'mmagine di Gerolamo, del grande interprete, pregandolo, se non può dare risposte sicure, di formulare almeno qualche probabile ipotesi. Non molto tempo fa c'è stato un critico che ha esaltato l' “irresponsabilità festosa del disimpegno”. Ecco: Leonelli è all'opposto di una simile esaltazione. E' cioè un artista che non intende voltare le spalle ai problemi, I problemi, al contrario, se li pone con ostinata coerenza, tentando di districarli e di articolare, col suo linguaggio immaginoso, una possibile via alla conoscenza.

È per questo che Gerolamo prende appunti, scrive incessantemente le sue osservazioni una pagina sull'altra. Guardate i quadri e i disegni che Leonelli ci pone sotto gli occhi: di una simile fitta ragnatela di note v'è dovunque una traccia concitata. Gerolamo vorrebbe sapere, cerca di analizzare, registra i risultati a cui riesce ad arrivare. Ma in realtà non è mai soddisfatto. I dubbi restano, anche il dubbio che ci sia davvero una risposta…
… È dunque un lungo viaggio, anzi, una vera scorreria attraverso gli anni e i giorni che ci coinvolgono, quella che Leonelli ci sottopone quale memoriale delle sue e delle nostre avventure Di ciò, guardando i suoi quadri ed i suoi disegni, non dobbiamo mai dimenticarci. Il suo è un invito a renderci conto del senso che gli episodi della nostra esistenza hanno significato e significano, ma ciò senza pregiudizi e tanto meno con moralismi ex cathedra. Umanissimo è dunque il suo discorso, con tutto il tremore ed il timore del caso. Qualche anno fa, nell'89, Leonelli aveva dipinto un quadro che forse potrebbe diventare una chiave di lettura dell'intera sequenza delle opere che ora sono appese alle pareti di questa sala. È una composizione dove si vede, a testa in giù, un agnello scuoiato, vittima emblematica delle stragi perpetrate dagli uomini sul nostro pianeta. Sotto, invece, ha dipinto il proprio autoritratto, l'esatto contrario d'ogni narcisismo. L'autoritratto, infatti, è l'immagine grottesca e deformata della propria figura: l'immagine di omuncolo intabarrato, barbuto e sornione, frutto di una ironia impietosa nei propri confronti. E di che cosa dovremmo essere fieri e felici, pare che ci dica, se, nella situazione in cui viviamo, non siamo riusciti a risolvere nessuno dei problemi che ci assillano?

Nel quadro però, accanto a un tale autoritratto, c'è un secchio con tanto di straccio e di scopa. Ecco: è un brutale e perentorio invito perché finalmente ci si decida da far pulizia, a cancellare colpe e tradimenti per restituire all'uomo la propria dignità. Forse, dunque, l'impresa di Leonelli non è che un' impresa pedagogica: non mi pare che si debba avere paura delle parole. Tuttavia, è certo, si tratta di un'impresa portata a termine con tutte le carte in regola per essere definito un pittore autentico, un sicuro inventore di immagini, e soprattutto, sediovuole, un artista che, oltre le peripezie del gusto, restituisce all'arte il valore della persuasione.

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Mario De Micheli, dicembre 1993

Gli amanti perversi

di Mario De Micheli

Margot la Grossa, Margot la Grassa, Margot la Cicciona, insomma l'abbondante e lardosa Margot, a furia di frenetiche incontinenze, ha ormai trasformato il suo Villon in un puro scheletro insatirito.

Eccola dunque lì, spolpato il suo amante, che continua con lui, come se morto non fosse, le acrobazie erotiche di sempre. La sua corpulenza, al confronto, sembra ancor più straripante, mentre Villon, realmente ridotto all'osso, si contorce con possibilità amatorie tecnicamente inedite.

Ecco gli amplessi dell'insaziabile coppia, padrona di un bordello per intima vocazione, ma soprattutto per spregiudicata polemica contro il perbenismo dei falsi moralisti, peraltro assidui frequentatori di lupanari o ben disposti a pratiche affini. Leonelli insegue agilmente le proprie immagini sulle pagine bianche, strizzandoci l'occhio con puntiglio provocatorio, Chi può dunque avere paura della Grosse Margot e del povero François? Gli umori allegri cancellano ogni macabro senso di colpa e l'innocenza della copia trasgressiva trionfa sulle leggi inderogabili del peccato.

Dopotutto si capisce che per gli abusi d'amore nessuno andrà mai all'inferno.

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Mario De Micheli, settembre 1992

Dialogo con l’artista

di Franco Loi

La scienza e la filosofia di ogni tempo ci pongono di fronte alla consapevolezza di una realtà che sfugge alla nostra pretesa di padroneggiarla. Per questo Einstein ha scritto: “Non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione” e Planck ammonisce: “Più conosco e più mi trovo davanti al mistero”. Anche su queste basi, necessarie ad ogni ricerca scientifica, Holderlin poteva ribattere a Hegel che “la logica non può farci comprendere Dio, ma l’arte ce lo fa sentire”. Osservazione che ci offre l’opportunità di ribadire che ogni pretesa di rendere razionale o catalogabile l’opera d’arte non può farci dimenticare i tradizionali criteri d’osservazione e giudizio, tenendo conto anche del modo con cui ogni immagine si offre al nostro sguardo, alla nostra sensibilità, e del come il nostro essere ne viene investito. Brevi citazioni e considerazioni che mi sono state suggerite dall’arte di Luca Leonelli e dalla ricchezza del suo segno.

Comincerò da un’asserzione che il critico Mario De Micheli fece nel 1993 per introdurre una mostra del nostro artista: “Impulso, fervore, vertigine, intelligenza: è questa l’impressione immediata che vi prende davanti alle tele e ai suoi fogli. Leonelli vi aggredisce e non vi da pace. C’è in lui un’energia che eccita l’immaginazione”. E mi pare opportuno aggiungere che alla forza di questa espressività occorre spesso notare l’ironia, a volte autoironia, che attutisce o dilata gli effetti violenti e dà efficacia a quelli lirici. Molte sono infatti le immagini e le relative emozioni che ci catturano anche in questa mostra: gli sciami d’insetti, le teste in folla nelle più svariate circostanze (teatri, piazze, sale di conferenze) e poi il bambino dell’autoritratto, il falso profeta, l’oracolo, il maiale che s’incammina (il titolo del foglio è Allegretto o Andante), Adamo, Eva…

Guardiamo per un momento i vari “sciami” o “folle”. C’è sempre qualcosa che li percorre e trascina, sia in forma di chiome liberate che di voci o gesti o semplicemente contiguità di teste e crani. La maestria dell’artista conferisce al segno l’intensità di una corrente d’aria che tutto trascina o vorrebbe travolgere a un destino. Aveva giusto osservato Sabina Leonelli, in un suo scritto, che “le peripezie dello sciame disturbano e attirano tanto nella violenza delle rivolte senza esito quanto nell’ironia della fragile quiete”. Tuttavia, nel rappresentare l’ossessiva incombenza degli sciami, Leonelli evita di ridurre gli uomini a “massa”. Spesso, nel movimento, vengono coinvolte vere e proprie individualità: si notino i tanti occhi e le posture delle teste rispetto all’onda che vuole trascinarle. E qui entrano in gioco non solo l’ironia, ma anche la considerazione che l’artista ha per l’uomo e le sue risorse: chi si guarda alle spalle, chi osserva curioso, chi tenta di sottrarsi — a volte si raddoppiano gli occhi in una sola testa.

Le mani divengono spesso protagoniste nelle sue immagini: sappiamo che la gestualità è nel carattere dei popoli mediterranei, soprattutto degli italiani. Ecco il politico che fa del gesto quasi un rito, che sottolinea con le mani la retorica di certe asserzioni, i tentativi di coercizione o d’induzione. Così la bava che gli esce dalla bocca si trasforma talora in una striscia nera: è un accorgimento tecnico, si sa, ma rende evidente l’oscurità che cala sugli ascoltatori.

Il falso profeta (mezzotinto e puntasecca) emana a sua volta una tenebra — oscurità che cattura anche lui — se notiamo che ha gli occhi coperti dai propri capelli sciamanti. Non è mai diversa la sorte di chi predica il vuoto e di chi lo ascolta quando si tratta della ricorrente falsa profezia, poiché la parola non significa solo previsione di un futuro per le folle che lo subiscono, ma anche per chi crede di dominarlo o provocarlo. Si pensi alla sorte di capi di Stato o “rivoluzionari” nei vari momenti della storia. Si è detto spesso che la “rivoluzione mangia i suoi figli”, ma accade anche per i falsi profeti o statisti.

È soltanto la parola della grande arte che, come scrive Carlo Marx, “è sempre il termometro del tempo” in quanto riflette la condizione reale dell’uomo nel tempo o, come scrive Laozi, “è scoperta dell’eterno presente all’interno di ogni storia” aggiungendo che la comprensione vasta e lontana e profonda del non-sapere è il più concreto approccio al fluire incessante delle cose e delle profezie. Il falso profeta, infatti, rimanderà sempre al futuro la realtà che agita davanti agli uomini, sia che parli di patria o teologia, o di qualsiasi altra ideologia — si pensi a “il sole dell’avvenire” e alle “sorti progressive”.

Ne abbiamo già parlato, ma desidero riprendere quest’altro aspetto del “fare” di Leonelli: l’umorismo, lo sguardo sulla cosidetta “serietà umana” reso tanto più evidente dalla “conoscenza e penetrazione dell’anima individuale e sociale che a volte può spingersi sino alla commiserazione” — vedi gli autoritratti.

Sostiamo per un momento davanti a Oracolo (acquaforte e acquatinta lavorata al brunitoio). Un rapace nero incombe in uno spazio di luce — in alto un corpo ovale sospeso a un filo — in basso e a lato un pubblico leggermente delineato che volta le spalle a queste immagini. Perché? Che vuole rappresentare l’ovale pendulo? Una meteora, un uovo destinato a partorire nuove vite? Oppure è solo un orpello?

E poi la straordinaria puntasecca Ricordi d’infanzia, ritratto a due anni. Il corpo di un bambino con due volti: l’uno proteso a guardare verso l’esterno pare intento a scoprire e imparare il mondo. Mi fa pensare a Jung quando parla dello “archetipo” nel profondo di ogni uomo, ma anche alla scritta sul tempio di Delfos, ripresa dai latini col “Nosce te ipsum” e a tutta la tradizione culturale che invita l’uomo a “conoscere sé stesso”. Ma perché aggiungere a quel corpo un secondo volto bendato che sembra richiamare l’attenzione del primo o distoglierlo dalla propensione a lasciarsi afferrare dall’esterno? Questa immagine potrebbe alludere alla necessità che fin dai primi momenti di vita costringe l’uomo a osservare e cercare di capire il mondo, oppure gli occhi bendati potrebbero alludere all’interiorità non ancora pressante, all’esiguità del mondo interiore di un bambino. Proprio quella benda potrebbe dirci che siamo noi uomini a doverci voltare, che la maturità consiste appunto nell’incessante equilibrio tra la conoscenza esteriore e quella interiore e che, se questa regola non viene osservata, il rischio più grande è la pazzia e quello più diffuso è già compreso nel segno degli sciami o nella schiavitù a una ideologia. Le due teste — che sembrano tendere a una sola — dovrebbero almeno confrontarsi nel tentativo di dare al bambino un unico volto.

Autoritratto a quarantadue anni (puntasecca). È sicuramente il foglio più carico d’ironia. Anche dalla sua bocca esce lo sciame che, in parte si perde nel vuoto (la chiacchiera?), ma in parte rientra nell’uomo, avvolgendolo. Di che? Della sua stessa arte o del suo dire divenuto consapevole o dell’ascolto interiore che il suo Io chiede a gran voce? Oppure è la coscienza stessa dell’artista che vuole riappropriarsi dello sciame non del tutto inteso?

Vorrei ora soffermarmi su altri tre fogli esposti: due raffigurano Adamo ed Eva, il terzo una figura possente seduta su una sedia in un bosco (Figura nel bosco). Adamo mi sembra un’altra proposta della serie degli autoritratti. Non che ci sia una somiglianza con l’autore, ma io ci leggo uno degli aspetti meno riconosciuti della sua indole: la dolcezza e insieme la capacità di guardare e capire e ancora la condiscendenza di fronte a l’ineluttabile scorrere degli eventi e dei giudizi. Ciò non diminuisce “la sua capacità d’urto” a cui De Micheli fa menzione in altra parte del suo saggio. Adamo è appunto, come dice la traduzione italiana della Genesi, qualcuno che si vede nudo e si nasconde. Non perché abbia paura, aggiungo, ma perché si sente inerme di fronte all’immensa responsabilità. L’immagine di Eva, invece, è possente. Sempre dalla Genesi, “Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio dare un aiuto che sia simile a lui”. Si guardi con attenzione questa figura — la sensualità è più marcata nel ventre e nei seni, mentre le gambe sono forti, salde. Da questa immagine prorompe una tale energia che la delicatezza della peluria sessuale riesce appena a ingentilire. “Tu sei bella, amica mia / e in te non c’è nessuna macchia…” (IV Cantico).

E infine, l’eccezionale puntasecca Figura nel bosco. Un grosso corpo accasciato su una sedia, un volto stremato che guarda e non guarda. E ciò che vede è inintuibile. Il bosco, magistralmente disegnato, è alle sue spalle. Mi si scuserà se ho dato tanto spazio al contenuto di alcuni fogli che mi paiono fra i più significativi dell’arte di Leonelli senza accennare all’eccezionale abilità tecnica dell’artista, arricchita dall’esperienza e dalla cultura, ma do per scontata la sua “manualità”. Scrisse Eugenio Tomiolo, pittore, incisore, poeta e grande amico: “Non basta la tecnica per creare un’opera d’arte, questa può solo renderci liberi alle possibilità della materia e al nostro modo di trattarla”.

Sono convinto che, avendo ognuno un suo modo di guardare e d’intendere, o richiamare alla propria conoscenza quanto vede e che, essendo facoltà della vera arte di sollecitare ad ogni persona persino la propria memoria inconscia, qualche riferimento alle intenzioni e ai diversi aspetti di una immagine possano essere utili a tutti, compreso lo scrivente.

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Franco Loi, 2012

Hermes

di Antonello Negri

Nel ciclo di pitture sul tema del San Gerolamo — dottore della chiesa latina, dunque un intellettuale, ma anche eremita, che la tradizione iconografica mostra immerso in un paesaggio aspro, a contatto con le fiere — Leonelli affrontava il tema dell'uomo che pensa, in apparenza separato dal mondo ma circondato dalla natura e dall'animalità. Nel quadro che apre questa mostra le idee assumono la forma del fumo di una sigaretta che esce dalla testa; alle spalle del fumatore un cane e una foresta ricordano gli attributi classici del santo e, al tempo stesso, suggeriscono una continuità con lo specifico passato della pittura di Leonelli attraverso la figura dell'animale, già al centro di una consistente sequenza di opere.

Il nuovo ciclo presentato in quest'occasione verte sull'idea dell'erma. Nel mondo greco antico, e poi romano, le erme — pilastri quadrangolari originariamente sormontati da una testa, più avanti da un busto maschile, dotati di un attributo fallico simbolo di fecondità utile anche per allontanare gli influssi malefici, talvolta arricchiti da iscrizioni moraleggianti — erano collocate lungo le strade, agli incroci, a segnare confini, ricordando la presenza positiva di un dio: Ermes, dal quale deriva il loro nome, era (anche) il protettore delle strade, dei “percorsi”. Una sorta di anello di congiunzione tra la figura di San Gerolamo, con tutto quanto significa, e il tema sul quale ha ora lavorato Leonelli potrebbe essere costituita da un altro eremita, San Simeone Stilite, che compare nell'iconografia tramandata proprio come erma vivente. Leonelli usa l'immagine dell'erma per dare forma all'idea di un rapporto dell'uomo con il mondo fortemente limitato dall'immobilità (l'erma è piantata nel terreno, è di pietra, subisce le aggressioni della natura organica), governato da un “io diviso” e agitato dalla pulsione insopprimibile — quando si esercitino le facoltà del pensare e del sentire, l'intelletto e le passioni — a rompere quell'immobilità, a uscire da essa.

In queste erme il corpo non è più di pietra, ma di carne. La testa non c'è, ma il flusso delle idee — riprendendo l'immagine del fumo della sigaretta dell'autoritratto come San Gerolamo — si concretizza in un'eruzione di colore che alla testa si sostituisce, investendo il mondo. La spinta all'azione, all'interruzione dell'immobilità, non è solo mentale: al torso bloccato dell'erma-corpo si aggiunge un braccio, oppure una mano, sviluppi degli originari monconi di arti delle erme antiche, che tendono a invadere lo spazio reale, fuori dalla tela, lo spazio di chi guarda.

Il quadro che chiude la mostra propone un uomo che può ritrovare la propria naturalità. Non è più bloccato come un'erma; la sua nudità, anzi, rimarca ora una condizione di libertà e al movimento fisico — sta camminando — s'intreccia un vorticare d'idee più che mai vulcanico, espansivo, teso all'utopia di un'età dell'oro, di felice integrazione di pensiero e natura. Tali considerazioni riguardano il “che cosa”. Se ne è parlato prima “perché il che cosa è più importante del come. È dal che cosa che si sviluppa il come!”.

Quest'affermazione di Otto Dix — tratta da un breve scritto del 1927 intitolato È l'oggetto che conta — sembra ben adattarsi al lavoro di Leonelli e suggerirne una chiave di lettura anche dal punto di vista del “come”, cioè della maniera pittorica (o grafica, nel caso degli acquerelli che si è scelto di proporre, per minimamente evocare il percorso di ideazione e formulazione dell'immagine). Non è certo casuale che Leonelli abbia esposto a Berlino e, nella capitale tedesca, stia preparando una nuova mostra. Berlino è il centro artistico del XX secolo che ha storicamente contrapposto ai formalismi e ai piaceri decorativi dell'asse Parigi-New York una pittura e una grafica spesso dure, aspre, costruite intorno alla figura e alla rappresentazione delle cose e principalmente interessate all'affermazione e alla comunicazione di idee. Non si tratta certamente di una questione di stile; d'altra parte soltanto a Berlino sarebbe potuta nascere, nel 1993, la prima Triennale del realismo. Per Leonelli — come per tutta quella cultura figurativa contemporanea per lo più non italiana, in buona parte tedesca, appunto, con la quale egli registra significative consonanze — la nozione di realismo non dev'essere naturalmente intesa in termini fenomenologici, cioè come volgare pittura d'imitazione. Coincide con il progetto, invece, di sollevare e discutere problemi reali indipendentemente dal linguaggio scelto e al di là della leggerezza delle immagini e delle virtualità che tendono oggi a occupare tutti gli spazi possibili.

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Antonello Negri, aprile 2000

Il paradosso del volo

di Giorgio Celli

L’idea di Lessing, espressa nel suo saggio sul Laocoonte, era che, al contrario della poesia, che esige, per dir così, un tempo di lettura, la pittura consente una percezione simultanea e totale. Ovviamente si sbagliava, perché, come ha dimostrato nel secolo appena passato lo psicologo russo Jarbus, l’occhio di chi guarda un quadro, innesca un vero e proprio percorso percettivo, va e viene più volte sugli stessi particolari, e, in un certo senso, rende legittimo parlare di una lettura vera e propria, che si svolge per l’appunto nel tempo. Di recente Castel, in alcune sue magistrali conferenze, ha preso in esame l’opera d’arte, il quadro, da un punto di vista fisiognomico, considerando i gesti e le espressioni dei personaggi rappresentati come degli elementi narrativi di un racconto che si affianca alla percezione più propriamente estetica.

Secondo me si tratta di una maniera di riformulare l’interazione tra la celebre coppia percettiva, della iconografia da un lato, che è semplicemente quel che si vede nel quadro, e dell’iconologia dall’altro lato, che completa quello che si vede con quello che si sa, ottenendo, talvolta, non solo un ampliamento dell’empatia, ma un rovesciamento della valutazione. Mi sembra chiaro, allora, che l’iconologia tende sempre a suggerire un racconto, e se il quadro astratto racconta se stesso, quello per figure narra una storia, che ha un prima e un dopo, mi si consenta la semplificazione.

Con il suo sciame paranoide, il cui volo prodigioso si snoda lungo una strip di ben 30 metri, Luca Leonelli ha puntato decisamente su di una opzione: proporre in modo perentorio una pittura che assuma le peripezie di un vero e proprio racconto epico. Osservando quest’opera davvero singolare, mi è venuto in mente l’analogo di una Via crucis entomologica, il cartellone con figure di un qualche cantastorie, come si incontravano una volta sulle piazze dei mercati, una illustrazione scientifica del libro di zoologia di un pianeta immaginario, e, alfine, quel che più importa, la descrizione di un viaggio attraverso le forme, il diagramma convulsionario di una straordinaria metamorfosi. Perché, questo sciame di animali fantastici, fantasmi di formiche o di api che siano, che vola sui prati e sulle paludi, diventando folla tra la folla, si presenta come un evento naturale che si trasfigura in pittura, e aspira così ad andare al di là dei confini canonici del quadro. A dilatarsi in un percorso ditirambico che finisce, se posso dir così, precipitando come Alice in un buco nero che conduce al di là dello specchio, nel dietro del quadro, insomma! A rendere esplicito, una volta per tutte, che la paranoia del volo è, in realtà, una paranoia critica, e come tale nasconde una irridente operazione concettuale. Un dipinto che scorre lungo i muri come un grande fiume di colori, sconfinando e alluvionando, alludendo a una possibile progressione nell’infinito. Un’opera che non è solo, ma forse soprattutto…un gesto!

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Giorgio Celli, ottobre 2004

Luca Leonelli, in compagnia degli insetti

di Giorgio Celli

Se è vero che tutti gli uomini hanno un totem, un animale o una pianta, che, spesso senza saperlo, hanno sacralizzato nel loro cuore, gli artisti confessano nelle loro opere, senza troppi infingimenti, queste loro predilezioni. Hogarth amava i cani, e Klee idolatrava i gatti, ma se è facile immaginare come si possa prediligere questi nostri animali da compagnia, Luca Leonelli, benché abbia dipinto anche dei cani, spesso mostruosi però, dimostra, dal canto suo, delle propensioni davvero singolari: ama soprattutto gli insetti. E di questo popolo innumerevole, non preferisce mica le farfalle, che si incendiano dei più vivaci colori nel sole, e neppure l’ape, la laboriosa alchimista del miele, Leonelli si dedica in pittura ai moscerini che salgono come dei lapilli freddi dai vapori del mosto, alle mosche che frequentano le nostre case, ai gorgoglioni che infestano i fiori, all’umile formica che ad ogni passo rischiamo di calpestare. Queste infime creature sono per lui dei giocolieri delle forme, dei protei minuscoli che esibiscono le loro strutture, strabilianti macchine di sopravvivenza, e spesso di una orrida bellezza, sui confini del visibile. Da un certo punto di vista, Leonelli traccia la mappa di una sua sommersa Atlantide entomologica, che non rappresenta, ma che, parafrasando un aforisma di Klee, rende visibile.

I suoi insetti sono naturali e insieme, vorrei dir così, culturali, figure chimeriche mescolate con parole, e poste a confronto con strutture geometriche assediate ed erose, quasi metafore dell’ordine perennemente posto in forse dal caos. Leonelli è l’esploratore delle terre incognite, dove vivono degli esseri che sono dappertutto, ma che nessuno vede. La sua poetica, di pittore presente al suo tempo, punta sull’alieno, sul lontano, sullo strano. E in tal senso, benché remoto, sembra perdurare in queste sue fantasticherie biologiche il fantasma di un certo surrealismo, alla Rostand più che alla Breton. Ma il suo intento non è quello di spaesarci e di sorprenderci: con una pittura fatta di sciabolate cromatiche e di macrocosmi in espansione esplosiva, vuole ricordarci che spesso quello che più ci sembra dissimile, fa invece parte di noi stessi, e che, l’amore per la diversità, accresce la nostra umanità. In tal senso, l’insetto è un mentore!

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Giorgio Celli, aprile 2004

Con lo sciame negli occhi

di Claudio Cerritelli

Che una tecnica come l’acquerello, quasi sempre affidata a brevi palpiti di colore sul foglio immacolato, potesse servire a raccontare un viaggio di trenta metri ininterrotti di carta è una sorpresa che Luca Leonelli offre al pubblico di questa mostra come un volo con lo sciame negli occhi.

Di fronte a questo profluvio di sensazioni cromatiche, il lettore si trova alle prese con situazioni contraddittorie che prendono corpo sul foglio dal primo scaturire dello sciame, la nascita informe e al tempo stesso figurata, fino al suo estremo dileguarsi in un punto stabilito della parete. Un punto scelto non a caso, dunque, uno spiraglio ipotetico dove l’immaginazione è sollecitata a portarsi oltre la parete stessa, forse per ricominciare daccapo, nel flusso pittorico di una grande assemblea umana, come un eterno ritorno del volo. Ma non sarebbe mai lo stesso viaggio: nessuna ripetizione è possibile, altre avventure scattano verso l’inesplorato, avvolgendo visibile e invisibile in un unico movimento che gioca con la prospettiva infinita del vuoto.

Abituato a concepire l’arte come favola pittorica situata nel punto di incontro di simboli e allegorie naturalistiche, Leonelli mette a dura prova la fluidità del colore, il suo espandersi attraverso slittamenti e contrazioni, slanci e costrizioni, addensamenti e leggerezze che procurano un senso di convulsione e, di conseguenza, rinnovano ad ogni istante l’emozione indicibile del volo. In questo sciame che ronza oltre se stesso e si srotola senza esitazione nell’atmosfera mutevole dello spazio l’artista codifica una visione dell’esistenza come esperienza imprevedibile, stato d’animo inquieto che somiglia alle intemperie della realtà esteriore, eppure non accetta limitazioni né provocazioni, solo analogie con le più contrastanti vicissitudini della natura. Si tratta umori e sapori del visibile che il colore restituisce con molteplici impulsi del segno, impulsi d’aria che diventano vortici, impulsi d’acqua che sembrano materie liquefatte, impulsi di fuoco che si muovono come lingue avvolgenti, senza dimenticare gli impulsi segreti della terra, apparentemente trascurata dalle traiettorie del volo, eppure riferimento inconscio di ogni trasfigurazione dell’immagine aerea. Questo sciame di pulsazioni cromatiche ha smania di correre a gran velocità verso l’obiettivo forse più avvincente per un artista dalla fantasia singolare come Leonelli. Vale a dire: verso lo spettacolo furibondo dell’onda-luce, dentro il dinamismo delle figure che proliferano a perdita d’occhio, oltre il magma della natura che risucchia lo sguardo nel proprio inarrestabile fluire.

Seguendo lo sviluppo lineare di questa scrittura visiva e verbale si ha la sensazione che il pittore possa iniziare da un punto qualunque, tale è infatti il modo di entrare in scena delle forme originarie, informi e misteriose, a viso aperto e insieme segrete, spinte senza mediazioni dentro il terremoto dell’esistenza a dover affrontare l’alterna e necessaria vicenda delle passioni. Leonelli intende lo sciame come metafora dello spazio sociale, affollato di esseri che hanno sempre qualcosa di eccessivo nel loro modo di relazionarsi, dunque spazio debordante, deformato e scosso da movimenti rapidi che non ammettono meditazione, solo ritmi torrenziali e precipitose fughe in avanti. Non importa dove, ciò che conta che non resti nulla alle spalle, che le tracce del viaggio conducano verso l’altro capo del mondo. Del resto, può forse l’artista prevedere le direzioni dell’atto creativo, i tempi d’invenzione e il modo in cui un’immagine si trasforma in un’altra immagine? Può egli essere cosciente di tutto ciò che l’ambizioso progetto dell’opera comporta, fino a capire che l’avventura del reale non potrà più arrestarsi, ma modificarsi — questo sì — nei suoi corsi e ricorsi?

Sulle ali di questa impossibilità di prevedere l’imponderabile il volo è affrontato con l’arma del paradosso, in quanto la sua verità sta sempre altrove rispetto all’immagine dipinta, è fatta di figure che fuggono nel flusso irresponsabile del colore, nella vibrazione del gesto che inonda il gran rotolo di carta con una fitta pioggia di segni, di scritture calligrafiche, di curve voluttuose e barocche. Queste visioni viste di sfuggita rinnovano ogni volta i ritmi incalzanti dello sciame, il loro diverso articolarsi nella tensione totale del volo che si espande nell’ambiente sotto il dominio del rosso. Dopo aver raffigurato la nascita e l’adolescenza dello sciame siamo quasi a metà del racconto e all’immagine sdoppiata di un volto, forse l’autoritratto dell’artista in balia di un vortice creativo. Segue un piccolo teschio che affiora da una folla di corpi alla deriva: oscillazione del destino umano sull’onda di opposte prospettive, l’individuo e la collettività, la vita e la morte, la violenza e il dolore ma soprattutto il desiderio di assecondare gli eccessi corporali e mentali.

Solo nella seconda parte del tragitto, quasi a compiacersi della propria immagine, lo sciame si distende nel verde sogno della natura attraverso spasmi di grigio, rimbalzi e ondeggiamenti pervasi da ombre e luci che scivolano e si infrangono, quasi rumorosamente. Nello stesso attimo: l’uomo si ricongiunge agli elementi naturalistici, il movimento dello sciamare assume un respiro cosmico, la forma dei corpi si identifica nel dinamismo del pensiero visionario che scorre senza tregua, talvolta drammatico e irritato dalla propria ferocia.

Per Leonelli immaginare il volo significa dare sempre una soluzione nuova agli stessi impulsi dinamici, vuol dire scuotere lo spazio fino al punto di svelare nuovi incontri tra uomo e natura, connessioni invisibili eppure persistenti, proprio perché la funzione generativa della natura è totale, indica la condizione inesplicabile in cui l’uomo ritrova la sua origine dentro i labirinti della materia, e non fuori dal mondo. Anche quando dipinge puntigliosamente il mare e i suoi abitanti, i movimenti rapidi delle rane, l’artista è preso da un‘urgenza espressiva che trasforma l’aspetto descrittivo in visioni oltre i riferimenti stabiliti: gli occhi affondano nelle onde, i corpi sembrano animali deformi, le mani vengono rapite dalla velocità delle linee, le teste sembrano un esercito in marcia contro le onde. Il lettore non può che assistere stupito di fronte agli eventi che si collocano senza fissità e certezze nello spazio infinito lungo trenta metri e alto uno e quindici. Dentro questo sciame in continuo fermento avviene qualcosa che nessun altro spazio sa garantire, in quanto spazio della pittura, sensibile solo alle tentazioni del colore, a quell’istinto che spinge Leonelli a competere con le correnti d’aria, le raffiche di vento, le scie che collegano un punto all’altro, fino a rovesciarsi, tornare indietro, per ricacciarsi di nuovo in avanti.

In questi anni di cieca dedizione alle forme immateriali della tecnologia, il piacere di sentire il colore come strumento che non si allontana dall’uomo e dai suoi esercizi d’invenzione è qualcosa che quest’opera avvolgente di Leonelli fa apparire sempre più necessario. È un piacere che allude alla complessa metodologia di lavoro del pittore, alle sue riflessioni sulla natura aggressiva dell’uomo ma soprattutto alla libertà immaginativa del suo racconto inverosimile, con un linguaggio sospeso tra diverse discipline, tra arte e antropologia. In fondo, questo è il valore conoscitivo ed estetico su cui Leonelli fonda la sua visionaria idea dello sciame sociale: rappresentare l’avventura vertiginosa del volo come metafora totale dell’esistenza, attraverso il flusso inesauribile del pensiero pittorico.

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Claudio Cerritelli, 2004

Cercando Ulysse

di Sabina Leonelli

The great Dinosaurs had long since perished when their ships entered the solar system,
after a voyage that had already lasted thousands of years
—S. Kubrick and A.C. Clarke, “2001: A Space Odyssey” screenplay

Seguire il volo. Anni di post-moderneggiante individualismo e tecnologia digitale, in cui la possibilità di generare e distribuire innumerevoli immagini continua a distrarre dall’interrogarsi sul senso e l’utilità di ognuna, ci hanno abituato a diffidare di una proposta così sfacciatamente rinascimentale. Che arroganza! Che presunzione, in questo nostro imprescindibile Presente dalle mille sembianze equivalenti, il tracciare una visione universale dell’umano!

Eppure le peripezie dello sciame coinvolgono subito. Disturbano e attirano, tanto nella violenza delle rivolte senza esito quanto nell’ironia sulla fragile quiete tra le rane, senza parlare della corsa ‘finale’ (?) verso il Buco del Giudizio. Affascina il senso di un racconto che è La Nostra Storia quanto è un punto di vista, una sfida al pensiero, al bisogno di essere critici nonostante la rinuncia ad ogni illusione.

Del resto, nulla é sistematico nel volo se non il suggerimento del dubbio, un dubbio che — al contrario del cogito cartesiano — non esclude nulla, abbraccia tutta la materia e emerge da ogni dettaglio della sua continua evoluzione. C’è un senso per l’individuo nella storia? C’è un protagonista, un filo conduttore preferibilmente senziente dell’azione spasmodica e irrefrenabile che chiamiamo vita?

La domanda può solo esser posta, con forza, in più forme. È un omaggio tanto beffardo quanto drammatico al razionale umano, le cui ali non possono cedere perché non è un Icaro a guidarle e sfidare la morte, ma una Folla tiranneggiata dalle leggi della Natura e della Storia, secondo le quali né la volontà né la mera esistenza dell’Uno determinano se non un guizzo fugace del pennello.

L’atto stesso di creare il volo, come pure di contemplarlo, compiuto, sulla carta, indica prima di tutto la necessità di abbandonare ogni tentativo di imporre interezza, coerenza, unicità di prospettiva. L’unica certezza è quella del paradosso: non esiste riflessione globale né percezione unitaria se non nella rinuncia a una visione d’insieme. Cos’è l’insieme, sembra chiedere Luca, se non un’esperienza di movimento? Le inesauribili trasformazioni dello sciame non si possono osservare se non in azione — degli insetti e delle rane loro malgrado, del pittore in bilico sulla carta, del visitatore che si sposta, indietreggia, si volta, si avvicina alle immagini nella vana, umanissima speranza di coglierne un’essenza unica.

In volo, i paradossi si accumulano e intrecciano in una inesauribile molteplicità di risposte insoddisfacenti. Tracciare un segno è allo stesso tempo prendere posizione e abbandonarla, una riflessione dinamica, inarrestabile, ma sempre presente nell’intento esplicito dell’opera. Lo sciame pullula dell’ineffabile tensione tra comprensione e azione, l’una necessariamente semplificante, limitata, locale perché individuale, l’altra un processo inarrestabile di continua, estenuante, illogica trasformazione. L’animale uomo vive nel tempo e nello spazio della natura a cui appartiene e che definisce i confini della sua esistenza. L’animale uomo è, inevitabilmente, definito dal branco — ma non si vede amore nel volo, né scopo, solo il ronzare continuo di passioni in tumulto, un viaggio senza soste che è garanzia di sopravvivenza tanto necessaria quanto misteriosa.

La domanda è molteplice, normativa e descrittiva insieme. Contiene i germi di tante risposte, ma nessuna risoluzione — com’è privilegio del pensiero in immagini. Nessuna analisi scritta può evitare di ridurre il complesso insieme di prospettive presentato dall’opera. Eppure, Luca continua a servirsi delle parole — il linguaggio lo affascina al punto da inserirlo come elemento separato, vocale e ricorrente, nel percorso tracciato dalle immagini. L’artista è fin troppo consapevole dell’impossibilità di separare i mondi del corpo, dell’analisi verbale, dell’immagine compiuta. Possiamo quasi immaginare i movimenti del corpo vivo, unico, pensante e dubbioso all’opera. Tutto nell’immagine è azione, il tratto minuzioso, l’acquerello brusco quanto esile sulla carta. Tutto nell’azione è pensiero, un commento frammentato e molteplice quanto l’esperienza che lo genera, e quindi giustamente espresso in un misto di esclamazioni impulsive, riflessioni lungamente meditate, reazioni improvvise quanto naturali alla storia che avanza.

Quasi inutile sottolineare il paradosso più evidente e fondamentale del volo: mio padre crede nell’Uomo. Più che una fede, il suo è un desiderio, un chiedere e chiedersi senza grandi speranze ma con un radicato quanto ineffabile senso del giusto. Non si trova speranza nella folla di insetti coralmente votata a un volteggiare senza meta apparente. Eppure, l’azione persiste, e con essa il susseguirsi degli eventi, spesso tumultuosi, a volte ciclici, raramente stabili, ma sempre provocanti: la sussistenza umana continua nel moto, nella continua trasformazione che lascia nulla di composto, nulla di permanente, nemmeno al momento del Giudizio — anch’esso, un passaggio. In questo processo evolutivo — dove evolutivo denota la necessità del biologico, non l’arroganza del progressivo — l’uomo-animale si torce nella ricerca di una libertà individuale tanto agognata quanto apparentemente improbabile.

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Sabina Leonelli, Settembre 2004

Intime ritualità

di Franco Farina

Da subito Eros-Thanatos, gli istinti di vita e di morte che da sempre costituiscono il viatico delle umane vicissitudini. Poi, a ben guardare, un sottile intreccio di “intime ritualità” e di erotismo macabro, artatamente giustapposti che trascendono la rappresentazione contingente per sconfinare nella filosofia e nella letteratura mistico-simbolica.

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Franco Farina, settembre 1992

Ma è un sogno?

di Luciana Frigieri Leonelli

Una linea scattante ed estrosa che non si spezza sull'equilibrio dell'articolazione crea l'arbitrio di affondare entro un volume morbido. Partecipo immediatamente per lei ( o lui, lo scheletro ). Lo stimolo è rivalsa epidermica contro cultura e fascino misterico, libri torturati dal tempo e accreditati dal dogma, campane rimbalzanti sui vivi per accelerare gli accordi col cielo. Poi, il ragionamento. La “danza della morte”, questo imperituro molleggio cui si adegua anche chi non conosce i ritmi della vita, è stato un incubo durante il '500, quando un'unica via verticale era tracciata tra la terra e “l'al di là”, né si poteva deviare. Il '600 ha preferito rifugiarsi nell'estasi e dare così uno smacco a chi si era privilegiato dell'Assoluto. Il '700 e l'800 si sono piegati entro una realtà che, se non altro, ci compete. Il '900 ha acceso i tizzoni dell'“Io quanto valgo?” e i canali sono esplosi. Vediamo un po' questa danza della morte 1992. Lei (la donna) ha carne e muscoli, capelli che si espandono, occhi e orecchi come valvole di difesa, nervi soggetti al comando. Ha paura della sua abitudine. Poiché abitudine è la forma, abitudine lo sguardo proiettato all'esterno, abitudine la voce addomesticata.Lei è forma, è formula, è volume. Può darsi che qualcosa abbia appreso, questa donna dai capelli espansi, Ma di fronte allo scheletro che la provoca “è un sogno”, che la seduce “valgo più io inseguitore che tu come protagonista di vanità”, allora, dico io, prendi il sogno che ancora scalpita, biondina.Non ha voce, non ha occhi, non ha udito.Chiede di educarti. Poi si disgregherà, come è destino di ogni sogno …

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Luciana Frigieri Leonelli, settembre 1992

Luca Leonelli

di Giorgio Cornia

Si può affermare che la pittura di Leonelli non è esito di impulso istintivo ma un fatto di sensibilità ed emozione, un rapporto complesso e sempre misterioso; una ricerca continua delle manifestazioni della natura che egli scopre con l'osservazione. Un intrigo di foglie di cime di rapa diventa un quadro, ogni animale o cosa della natura che ci circonda divenuta soggetto vivo di un bestiario animalistico e umano. Per Leonelli la Pittura è un mezzo idoneo non a riprodurre l'evidenza delle cose e della figura, bensì a cercare una identità speciale della relazione complessa e profonda tra l'uomo e il mondo fuori da ogni aneddoto rappresentativo. Egli cristallizza miracolosamente la sua facoltà di espressione e svela il degrado dell'umanità. Il suo pennello è un bisturi che fruga nel corpo dell'uomo come nelle numerose produzioni di San Gerolamo, personaggio chiave dell'ultimo Leonelli […]

Questo processo di riduzione a assenza è unito ad una azione di ricerca dell'io più intimo dell'artista, una osservazione di primi piani che si propongono come memoria e sensori vegetali, morbidezza e spessori di tessuti umani. Ne risulta un linguaggio plastico, lirico e concettuale, un procedere per invenzione di metamorfosi di racconti. Del linguaggio pittorico di Leonelli, si può dire che v'è la rappresentazione dell'immagine […]

Ovviamente è impossibile nei termini di questa brevissima nota sfiorare la complessità e la sofisticazione del linguaggio pittorico di Leonelli, forme e colori articolati, non provvisorio e bozzettistico, la pittura è mossa, disegnata e dipinta con mano maestra come nell'acquarello che l'artista padroneggia in modo mirabile dalla liquida trasparenza dei corpi all'immediata naturalezza con cui egli traduce verdura, insetti ed animali in immagini di puro colore. Il mondo pittorico di Leonelli è di una grande sensibilità poetica e di una forte ricchezza di umanità che sa tradurre il suo fervido cinismo in candida parabola e la testimonianza alla sua fantasia appare appare di colpo diversa e pronta a far eccellere la sua visione dell'arte con temperamento e con una vena fortemente romantica.

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Giorgio Cornia, La Provincia Di Modena, marzo 1994

Articoli sulla mostra personale presso la galeria ADAC (Modena)

[…] Devo dire subito che mi piacque quel che dipinge e come lo dipinge. Credo anche di avere capito che il fare pittura per Luca sia un atto vitale, il suo modo più autentico per dialogare con noi, per comunicarci i suoi sentimenti per le cose del mondo visibili e per quelle invisibili ma esistenti, dentro di noi, nel loro articolarsi e svilupparsi fra sogno e realtà, fra passato e presente […] Molte opere di Luca Leonelli hanno suscitato in me forti emozioni per una vereconda ironia, sottile e pungente che le invade e le permea e che funge da raffreno alle “rabbie” interiori suscitate dalle disillusioni dei comportamenti umani di questa società civile che mai si libera completamente dalla barbarie ma, anzi, vi ritorna con tutti i “neo” e gli “ismi” che ne sintetizzano le cause […] Credo che Luca Leonelli appartenga alla categoria di coloro che soffrono la caduta delle tensioni ideali. Mi pare preminente che con la sua pittura Leonelli ci proponga con sincerità una riflessione sull'umano destino possibile […]

Mario Cadalora, ottobre 1985

[…] Si presenta con un impianto figurale solidismo […] è l'autorevolezza, la sicurezza con le quali Leonelli procede a definire le sue figure, ritagliate nello spazio con grande forza, che fa di questa pittura qualcosa di solido, di forte quasi, talora di eroico […]

Carlo Federico Teodoro, L'Unità, ottobre 1985

[…] una coscienza meditata e sofferta della assolutezza di un lavoro che è scavo interiore e ragione dell'anima e partecipazione esistenziale, prima ancora che “prodotto” plastico e grafico […] Così, quando la mano di Leonelli si abbandona e si distende oltre l'involucro drammatico e concitato delle forme umane, avviene di scoprirlo in evocazioni placate di animali in corsa, in accenati angoli di natura che portano con sé tutta la struggente e pur solitaria bellezza di una trasfigurazione che confina soltanto con la poesia.

Casimiro Battelli, Nostro Tempo, ottobre 1985

[…] Queste figure, dalla possanza rinascimentale, si muovono fra epica e ironia, più prossime allo sberleffo che all'urlo disperato… … le immagini hanno il pregio di una loro autonoma originalità espressiva e suscitano forti emozioni. […] un vero artista, insomma, che nella rivisitazione della storia va all'inquieta ricerca di se stesso […]

Ferruccio Veronesi, Il Resto Del Carlino, ottobre 1985

[…] Se c'è ironia essa non può che essere corrosiva. Nel senso che essa pone in rilievo la vanità di ogni certezza e la precarietà di pur salde costruzioni. Nella incapacità di una piena adesione anche ad una vita sensuale, l'uomo riesce a trovare uno spazio per una sua “identità sospesa” con un campo “neutro” intorno alle figure che pare chiedano di essere completate almeno dalla fantasia dell'osservatore.

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Michele Fuoco, Il Giornale Nuovo, ottobre 1985